Paesaggio à la carte

Frederick Bradley      

Salviamo il paesaggio 17 /08/2025

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È di poco tempo fa la notizia che Donald Trump avrebbe intenzione di aggiungere la statua del suo volto al complesso monumentale del Mount Rushmore National Memorial, nel South Dakota (USA). La pochezza del fatto e la scarsa credibilità del suo promotore hanno limitato l’eco mediatico di una decisione considerata da molti una delle solite boutade di chi governa il Paese più potente del mondo. A ben guardare, tuttavia, la proposta è un chiaro esempio di come il paesaggio venga spesso considerato ad uso e consumo di chi ha il potere di modificarlo, sia esso un pericoloso mattacchione o, com’è accaduto molte volte, un sedicente artista in cerca di visibilità.

In un saggio pubblicato di recente (Paesaggi di viaggio. Il mondo visto da un viaggiatore non turista) ho brevemente analizzato il significato del complesso scultoreo di Mount Rushmore evidenziando il fatto che non si tratta dell’espressione della cultura di un popolo, quello statunitense, ma della celebrazione della sua potenza in forma megalitica ad opera di uno scultore evidentemente affetto da mania di grandezza. Prima che alcuni minatori del luogo dedicassero la montagna a un suo frequentatore appassionato, tale Charles Rushmore, avvocato di New York, le Black Hills, il massiccio montuoso di cui la stessa montagna fa parte, rappresentarono per secoli un fondamentale riferimento geografico e culturale per i Lakota, i nativi americani che la abitavano prima dell’arrivo dei bianchi. Essi chiamavano quelle montagne Pahá Sápa, ovvero Colline Nere (da cui l’attuale nome in inglese), in virtù dei fitti boschi che conferiscono loro un colore scuro se viste da lontano, cioè se inserite nel loro contesto paesaggistico naturale.  

Se dunque un significato va attribuito alla teste dei quattro presidenti USA scolpite nel granito, questo non può che essere l’imposizione della cultura bianca su quella della popolazione nativa, anche con il fine di distruggerne il profondo legame con il territorio. Un’interpretazione chiaramente espressa da Calvin Coolidge, 30° Presidente degli Stati Uniti, secondo cui Mount Rushmore è “incontestabilmente Americano nella sua concezione, nella sua grandezza e nel suo significato”.

Ora Trump vuole comparire tra i più importanti Presidenti della storia americana. Ma poiché questi furono scelti a simbolo rispettivamente della nascita, della crescita, della conservazione e dello sviluppo della Nazione, a che titolo la sua testa dovrebbe aggiungersi alle altre? Non lo so e non mi interessa saperlo.  Mi interessa invece rilevare il fatto che la proposta ha suscitato più di una polemica e avuto il diniego da parte del direttore del Mount Rushmore National Memorial. In realtà proposte analoghe furono già negate a Presidenti più popolari dell’attuale, e sembra che il rifiuto del National Park Service, l’ente federale che gestisce i parchi nazionali statunitensi, sia da attribuirsi alla mancanza di spazio per una quinta testa. 

Tra i molti oppositori, tuttavia, c’è chi opera nella conservazione del patrimonio culturale statunitensi. Come dire, un simile intervento lederebbe la cultura del popolo (bianco) americano, forse dimenticando che cent’anni fa proprio questo popolo lese nello stesso modo la cultura dei Lakota. Come avvenne allora, con l’aggiunta di Trump Monte Rushmore servirebbe ancora una volta a glorificare il potente di turno, una sorta di utilizzo “à la carte” del paesaggio con la differenza che ora a subirlo sarebbe la cultura che all’epoca cancellò quella dei nativi, offrendo a questi ultimi il sapore di una vera e propria nemesi.

 

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